Oggi si parla molto (forse troppo) di sicurezza, poco di legalità, e ancor meno di dignità; eppure questi tre concetti sono fra loro interdipendenti e connessi, perché non vi può essere sicurezza senza legalità, legalità senza dignità, dignità senza sicurezza. La giusta e sempre più pressante domanda di sicurezza pubblica nelle nostre città, strade, case, va affrontata rendendosi conto che per ottenere sicurezza bisogna soprattutto avere e offrire legalità: la sicurezza pubblica, di tutti, è quella in cui tutti sono chiamati a rispettare le leggi, ed a rispondere delle violazioni a queste ultime.
La prima responsabilità per il clima di insicurezza in cui viviamo, cioè, è legata alla “cultura dell’illegalità”, che vede il rispetto delle leggi come un optional di cui fare a meno ogni volta che è possibile. Non si può invocare la tolleranza-zero per gli altri, per i lavavetri abusivi e per i mendicanti, per quanto fastidiosi, mentre si predica o si pratica la tolleranza-cento per sé, per gli evasori fiscali. Sicurezza e legalità (due facce della stessa realtà) coinvolgono una serie di valori che sono ordinati gerarchicamente, in scala di importanza e di gravità per la loro violazione. Si può essere d’accordo sulla repressione della illegalità di minor rilievo e importanza, a condizione che almeno la stessa, se non maggiore, attenzione venga dedicata alle illegalità più gravi; è troppo facile, altrimenti, limitarsi al pugno di ferro con i più deboli, lasciando indisturbati i più pericolosi.
Le risorse (poliziotti, giudici, infrastrutture, etc.) per offrire sicurezza, attraverso la prevenzione e la repressione dell’illegalità, sono notoriamente limitate. Perciò, nelle scelte per l’impiego di esse, va tenuto conto della scala di gravità fra le ipotesi di insicurezza, da quelle più lievi alle più gravi e pericolose, senza concentrarsi solo sulle prime, ignorando le ultime; anche se si deve riconoscere che la tolleranza dell’illegalità e della insicurezza nel piccolo, e l’abitudine ad esse, possono diventare una spirale perversa alimentando trasgressioni sempre più gravi e diffuse.
Ancora, va tenuto conto che la prevenzione e repressione, da parte dello Stato, non potrà mai essere sufficiente da sola, in assenza di una partecipazione della società civile e delle sue componenti (associazioni di imprese, sindacati, organizzazioni sociali e altro) alla gestione della sicurezza di tutti, in chiave anche di solidarietà. Inoltre occorre saper distinguere tra l’insicurezza obiettiva e la sensazione di insicurezza, la paura che può non avere obiettiva giustificazione nella realtà; e occorre soprattutto evitare di strumentalizzare questa paura, coltivando attraverso di essa l’intolleranza verso diversi ed emarginati. D’altra parte, la sicurezza derivante dalla legalità riceve un colpo mortale dalla “cultura dell’impunità”, che è figlia di quella dell’illegalità e che è risalente nella tradizione del nostro paese, se è vero che già Giolitti teorizzava che le leggi per gli amici si interpretano, per gli altri si applicano.
Come possiamo sperare nell’efficacia deterrente della legge – cioè delle pene per la trasgressione di essa – se l’unica certezza è quella di farla franca e in luogo della certezza della pena (che è deterrente più della sua severità) vi è quella dell’impunità, della prescrizione, del condono e dell’indulto, prima o dopo? Come possiamo sperare nella forza della legge, se ad ogni nuova discussione sulla sicurezza e di fronte a ogni nuovo episodio di insicurezza, invochiamo a gran voce sempre nuove leggi, che vanno ad aggiungersi a quelle numerosissime esistenti, invece di domandarci come mai non si riesce intanto ad applicare queste Infine, sicurezza e legalità non possono essere perseguite senza tenere presente che la prima e fondamentale regola della convivenza è quella della pari dignità, dell’eguaglianza non solo formale ma anche sostanziale, della coesistenza fra diritti inviolabili e doveri di solidarietà: quindi, in sostanza, del rispetto reciproco.
La ricerca e la difesa della sicurezza di tutti e di ciascuno (sopratutto dei più deboli, più poveri, più anziani, che più hanno bisogno e diritto alla sicurezza), e l’osservanza a questo fine della legalità, passano inevitabilmente attraverso la misura del rispetto reciproco: sia, in primo luogo, il rispetto per la dignità di chi è vittima di quelle aggressioni (piccole e soprattutto grandi) che generano insicurezza; sia però, in secondo luogo, anche il rispetto per la dignità di chi è responsabile di quelle aggressioni, nei confronti del quale i giusti e doverosi interventi di prevenzione e repressione non possono derogare alle condizioni essenziali di dignità che pur sempre gli devono essere riconosciute.
Dunque, tolleranza-zero? Sì, se a condizione di un discorso a tutto campo sulla sicurezza e sulla legalità, che coinvolga tutti e chieda a tutti il rispetto della legalità (di ogni legalità; anche la nostra, non solo quella degli altri); e che non dimentichi il rispetto delle dignità di tutti e di ciascuno, delle vittime ma anche degli aggressori, soprattutto nelle situazioni in cui l’aggressione in sé, minima e di scarso rilievo e gravità, sia in realtà e piuttosto espressione di sofferenza e di disagio sociale.
Athenaeum – 15.10.07