Dai progressi nella lotta al crimine organizzato, ai passi indietro nel contrasto alla criminalità economica e alla corruzione.
Credo che per cercare di uscire dalla crisi occorra ripensare profondamente la cultura della legalità ed il rapporto fra essa, l’efficienza e l’emergenza, come testimonia la sfida di Expo 2015.
Nei venti anni che ci separano dalla morte di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, e dall’inizio di Mani pulite (il primo tentativo serio di contrastare la corruzione), è preoccupante lo squilibrio che si deve registrare nella difesa della legalità attraverso il contrasto ai grandi ceppi di criminalità che condizionano pesantemente la crisi: la criminalità economica, quella organizzata, la corruzione.
Sul fronte della criminalità economica e di impresa si sono compiuti dei formidabili passi indietro. Si è azzerato lo strumento essenziale della trasparenza rappresentato dalla norma sul falso in bilancio, la finestra aperta sull’attività di impresa per tutti gli stakeholders e non per i soli azionisti. L’art. 2621 del Codice Civile – cartina di tornasole e grimaldello per la scoperta della corruzione e dell’evasione fiscale – è stato svuotato, in pratica eliminato. Era necessario delimitarne la portata, rispetto a certe ambiguità che ne consentivano una dilatazione giurisprudenziale eccessiva; non però sino al punto di renderlo inapplicabile.
Non solo; si è addirittura messa in crisi l’idea stessa della necessità di un diritto penale dell’economia e societario. Si è dato ampio spazio alla perseguibilità a querela di parte e ci si è indirizzati verso la prospettiva di contrastare soltanto le ipotesi di reato costruite su di un’offesa in chiave di danno patrimoniale. A tacer d’altro, sono ipotesi difficili da dimostrare quando ci si trova di fronte a fenomeni come quelli legati all’offesa della trasparenza o alla diffusività del danno su larga scala fra i risparmiatori.
Sul fronte della corruzione e della sua prevenzione si è rimasti immobili, sino alla legge approvata nell’ottobre scorso. Con l’esperienza di Mani pulite avevamo preso coscienza della insufficienza della repressione penale, per quanto necessaria; le note (e peggiorate) condizioni di crisi della giustizia e l’abbreviazione dei tempi di prescrizione dei reati hanno accentuato quella insufficienza.
Nulla si è fatto invece ai fini della prevenzione, mentre da un lato cambiavano le strutture amministrative, i loro punti deboli e le esigenze di tutela; dall’altra cambiavano le tecniche e le modalità della corruzione. Gli effetti sono sotto gli occhi di tutti: l’aumento esponenziale della corruzione; la constatazione che se prima spesso si rubava per fare politica, adesso molto più spesso si fa politica per rubare.
La nuova legge contro la corruzione desta molte perplessità sul versante della repressione: l’ottimista dice “è la migliore possibile”; il pessimista replica “purtroppo”. Sul versante della prevenzione essa apre finalmente la via ad una reazione sistemica ed organica alla corruzione: occorrerà vederne (e augurarsi) la applicazione.
Sul fronte della criminalità organizzata, si deve invece prendere atto – senza trionfalismi, ma anche senza rifiuti aprioristici – che per fortuna qualcosa si è mosso, soprattutto sul piano delle misure di prevenzione patrimoniale (il sequestro e la confisca) e su quello della informazione antimafia.
Da un lato, si è cercato concretamente di evitare che la criminalità organizzata acquisisca risorse pubbliche. Dall’altro lato, si è cercato di evitare che essa possa disporre delle risorse e dei patrimoni illecitamente acquisiti, utilizzandoli per inquinare l’economia sana. Proprio in questi giorni entra in vigore il c.d. codice antimafia, che completa l’evoluzione normativa realizzata in questi settori ed in quello – altrettanto importante – dell’utilizzazione a fini sociali dei beni sequestrati e confiscati.
Abbiamo cominciato a maturare faticosamente la consapevolezza che non si può convivere con la criminalità organizzata. Però non abbiamo ancora maturato praticamente nessun inizio di consapevolezza che non si può convivere neppure con la criminalità dell’economia, con il sommerso, con l’evasione e con la corruzione; anzi.
Eppure quei tre ceppi di criminalità non sono i vertici di un triangolo, separati l’uno dall’altro. Sono tre segmenti di un circolo; tre parti di un unico territorio, fra loro connesse; tre momenti di un’unica realtà. L’esperienza insegna che in essa la criminalità organizzata si fa criminalità economica attraverso la corruzione, l’inquinamento dell’economia, la c.d. zona grigia in cui la criminalità organizzata si mimetizza ed opera.
Continuare a convivere con il sommerso, con l’evasione, con la corruzione, vuol dire in realtà accettare di continuare a convivere anche con la criminalità organizzata, nonostante le apparenze; anzi, può risolversi nell’uso di queste ultime come alibi, per non reagire contro la criminalità economica e contro la corruzione. Perciò è importante passare dalla conoscenza dello studioso alla consapevolezza del cittadino; e spero di aver in minima parte contribuito a ciò, con la mia risposta all’invito rivoltomi dall’Università degli Studi di Genova.