L’Huffington Post | Di Barbara Acquaviti
Molte cose da dire in punta di diritto costituzionale, qualche reticenza in più se la si butta in politica. Quando parla del ddl Boschi, e del referendum di novembre, Giovanni Maria Flick preferisce più vestire i panni del giudice della Consulta indossati per nove anni che quelli di ministro della Giustizia del governo Prodi, carica ricoperta dal ’96 al ’98. “Questa riforma – sostiene – è sbagliata nel metodo e nel merito”. Ma ci sono un paio di cose, meno tecniche e più politiche, che proprio non gli vanno giù. La prima, spiega, è stato il tentativo di Renzi di “trasformare in plebiscito” la consultazione: fatto che ormai ha condizionato il dibattito nonostante – dice – la “scolorina” che in un secondo tempo il presidente del Consiglio ha usato. E poi, c’è la posizione assunta da alcuni giornali economici internazionali “espressione del mercato” che considerano l’eventuale vittoria del no peggiore della Brexit:”Sconcertante”, è l’aggettivo che sceglie. Ma se gli si chiede se questa non può essere considerata una “riforma dell’Ulivo”, Flick torna subito molto istituzionale: “quello che esprimo – ci tiene a sottolineare – è il parere di un normale cittadino”. Il che non gli impedisce di notare come Romano Prodi sia “tirato per la giacchetta”.
Lei dice che questa riforma è sbagliata nel metodo e nel merito. Cominciamo dal metodo, cosa non va?
Questa è una riforma fatta in modo disorganico, con una maggioranza ‘pur che sia’, con soluzioni work in progress, con eccessiva fretta. Stesso errore che fu commesso con la riforma del Titolo V nel 2001: alla fine era talmente sbagliata che è stato necessario un intervento correttivo, che alla fine si è rivelato eccessivo in senso opposto.
Passiamo alle questioni di merito. Non è vero che con questa riforma si semplifica il processo legislativo?
Ora anche taluni fautori del sì ammettono che alcune correzioni sono necessarie, ma dicono che si possono fare dopo. Io penso sia sbagliato. Se ci sono errori non capisco come si possa chiedere di votare prima per il sì. Quanto al procedimento legislativo, e alla presunta semplificazione che ne deriverebbe, dico solo una cosa: attualmente in Costituzione quel procedimento è spiegato in una riga e mezzo, nella nuova formulazione servono due colonne in gazzetta ufficiale per descrivere sette-otto procedimenti diversi.
Cos’altro non va?
La nuova struttura e identità del Senato è ambigua e confusa. Il meccanismo di designazione è affidato ai consigli regionali e a una indicazione popolare che non si sa bene come sarà regolata . Inoltre, se prima si è decentrato troppo oggi si riaccentra troppo sullo Stato. E’ facile prevedere molti conflitti al pari di quelli che vi saranno tra Camera e Senato sul nuovo procedimento legislativo.
C’è una parte della minoranza Pd che lega il suo sì alla riforma alle modifiche dell’Italicum. Secondo lei cambiare la legge elettorale è dirimente?
È indubbio che il collegamento con l’Italicum peggiora i problemi di una riforma che però è già sbagliata nel suo contenuto. Vedremo cosa dirà la Corte costituzionale sull’Italicum, se si eliminasse il nodo delle soglie troppo basse per il premio di maggioranza, dei capilista bloccati e della soglia per il ballottaggio, di certo si diminuirebbero i problemi di funzionamento. Ma i guasti della riforma rimarrebbero tutti. Riforma e legge elettorale sono due cose diverse, anche se reciprocamente funzionali.
L’opposizione, compresa quella interna al Pd, sostiene che ci sia anche una informazione, soprattutto quella della Rai, troppo schierata a favore del sì? E’ d’accordo?
Non ho il cronometro per contare i secondi. Posso dire che finora sono stato intervistato soltanto da Rainews24 e una volta da un Tg regionale. Ma certo, io sono un professore noioso, capisco che non mi chiamino. Per il resto, mi sembra che ci sia una preferenza per le ragioni del sì piuttosto che del no. Il problema davvero importante è che la gente non conosce il contenuto e il merito del referendum, l’accavallarsi della polemica politica impedisce un discorso serio.
Si riferisce a Matteo Renzi?
All’inizio il governo ha trasformato la consultazione in un plebiscito sulle sue sorti. Ora è stata fatta una marcia indietro e io dico meno male. Però gli strascichi restano. Anche perché ora la verve è quella di dire che se non passa il referendum è un cataclisma. Io dico che se la riforma non passa si può lavorare a una riforma che possa passare, come le altre trenta varate con successo nei 70 anni di vita della Costituzione.
Secondo i retroscena Renzi potrebbe annunciare le sue dimissioni prima, a prescindere dall’esito. Questo aiuterebbe a svelenire il clima?
Ben venga la spersonalizzazione. Ma una volta che il referendum è stato personalizzato non basta la scolorina. A me pare che continuare a legare la riforma alle sorti del governo, anche in questo modo, sia sbagliatissimo. Però mi lasci dire una cosa: leggere che alcuni giornali economici internazionali ci dicono che la vittoria del no sarebbe peggio della Brexit è singolarmente curioso. Io comprendo che gli altri Paesi siano interessati alla riforma della giustizia, della pubblica amministrazione o alle leggi contro la corruzione, ma che ci debbano dire come dobbiamo cambiare la Costituzione a me sembra sconcertante. Ed evito di dire offensivo.
In tutto questo dibattito, chi tace è Romano Prodi. Lei lo conosce da tempo. Che idea si è fatto?
Questo dovete chiederlo a lui. Io mi limito a constatare che lui non ha detto una parola, nè in un senso nè nell’altro, nonostante qualcuno lo tiri per la giacchetta e sebbene alcuni autorevoli esponenti dell’Ulivo, come Parisi, si siano schierati per il sì.
Insomma, per lei questa è o non è una riforma ‘dell’Ulivo’?
Io sono stato ministro nel primo governo Prodi e poi per nove anni giudice della Corte costituzionale. Parlo in base all’esperienza che ho fatto in questi anni, ma parlo soprattutto da semplice cittadino. E voglio ribadire una cosa: la Costituzione prima di cambiarla, bisogna rileggerla. Qualcuno dovrebbe addirittura leggerla.