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Referendum: “il peccato originale della riforma non si cancella”

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Intervista di Federico Ferraù per il Sussidiario

Si vota nel 2018 comunque vada il referendum: è stata questa l’ultima svolta renziana. La riforma più importante dell’agenda politica non riguarda più le sorti del governo, insomma. Una scelta accorta, quella del presidente del Consiglio, perché scava la terra alle radici del “voto utile”: che senso ha votare No, se Renzi rimane al suo posto? In realtà, le ragioni del No sono assolutamente intatte, secondo Giovanni Maria Flick, presiedente emerito della Consulta e ministro della Giustizia nel governo Prodi I. “La mia sensazione – spiega Flick al sussidiario – è che dopo la forte politicizzazione iniziale, la nuova marcia indietro del presidente del Consiglio non è sufficiente”.

Perché, professore?

Non è sufficiente perché quel referendum, per come è stato architettato – prevedendo cioè la modifica di una quarantina di articoli della Costituzione, che mette insieme oggetti profondamente diversi – rende estremamente difficile la comprensione dei profili contenutistici e la formulazione di un giudizio che non si risolva in un giudizio soprattutto politico e personalizzato, soprattutto da parte di un non tecnico, com’è la stragrande maggioranza dei votanti.

Qui però stiamo parlando della retromarcia politica del capo del governo.

Ci arriviamo. Il fatto è che la spoliticizzazione da un lato rischia di far pagare al Presidente del Consiglio un prezzo di coerenza politica abbastanza forte: è pur sempre il riconoscimento di un errore grave, perché la materia è importante e delicata da trattare.

Ma perché non le basta, professore?

Può non essere sufficiente nella misura in cui il tipo di referendum che ci viene proposto e le stesse modalità con cui la riforma è stata elaborata continuano a dissimulare abilmente il dna politico, anche di politica contingente, della riforma.

Insomma, la riforma nasce con un peccato originale.

Esatto. Un “peccato originale” molto articolato e complesso, in cui spicca, tra l’altro, l’avere in qualche modo mitizzato la demolizione del bicameralismo perfetto. Per cambiare il quale si è finiti per cadere in un bicameralismo malfatto; è vero che il meglio è nemico del bene, come sostengono i fautori del Sì, ma occorre che quel bene ci sia effettivamente…

Perché malfatto?

Per le forti ambiguità nell’individuazione dei componenti del Senato, frutto di un ibrido tra scelta popolare e scelta dei consigli regionali che rende la seconda camera inadatta a un confronto con la camera dei deputati, sia pure per funzioni diverse; perché c’è uno squilibrio tra una camera che rimane di 600 deputati e l’altra ridotta  a 95 membri, dei quali alcuni sono senatori a vita e gli altri a scadenze variabili. E perché i compiti del senato e le nuove procedure legislative renderanno caotico fare le leggi, generando senza sosta nuovi conflitti di attribuzione.

C’è poi il nodo dell’instabilità dei governi, un iattura alla quale la riforma dovrebbe finalmente porre rimedio.

Non le pare che il nostro brutto bicameralismo abbia funzionato fin troppo bene quando si è trattato di deliberare le leggi sul finanziamento alla politica? Tutte leggi e leggine approvate con esemplare tempismo e coordinamento parlamentare. Il problema non viene dalle regole, cioè dagli strumenti, ma dagli uomini che li usano. E’ vero: che sia solo una camera a dare la fiducia è più tranquillizzante per la stabilità del governo, ma la stabilità è la conseguenza diretta della solidità di una maggioranza.

E dunque del sistema elettorale. Ecco l’altro problema. Renzi continua a ripetere che non si vota sull’Italicum.

Lo so. Ed è vero: perché l’Italicum verrà esaminato il 4 ottobre dalla Corte costituzionale. Se mai prudenza avrebbe voluto che si facesse la riforma della legge elettorale prima di cambiare la Costituzione. Ma com’è ovvio, le due cose si tengono, e questo lo hanno capito tutti: si riforma — male — il bicameralismo, ma come si eleggono i deputati che votano la fiducia al governo?

Dunque legge elettorale e riforma sono legati a doppio filo.

Ed è un filo politico. Si è votato l’Italicum imponendo la fiducia. Ci hanno detto che era il sistema elettorale migliore del mondo e chi sollevava obiezioni veniva messo all’indice. A nemmeno un anno di distanza, quando non è ancora stato applicato, si è iniziato a demolirlo. Mi pare che ci sia una mancanza di logica abbastanza marcata in questo modo di procedere… É la stessa mancanza di logica, lo stesso difetto genetico, che — guarda caso — vedo nella formulazione e nella modificazione progressiva delle ragioni del Sì.

Ci arriviamo. Che cosa rappresenta il 4 ottobre per il referendum?

Un vaglio preliminare che politicamente ha grande peso. La mia sensazione è che molta gente continui, anche tra i fautori del No, a fare un discorso molto o soltanto politico. Chiedendo cioè a Renzi non solo la confessione di aver sbagliato nel personalizzare…

E questo Renzi lo ha fatto. 

L’ha fatto e non è sufficiente perché, come abbiamo visto, la personalizzazione rimane; ma si chiede a Renzi l’ulteriore passo indietro ancor più significativo di rinnegare anche la pretesa perfezione dell’Italicum. E la posizione che dice: se cambiate l’Italicum, voto Sì al referendum.

E per lei è un discorso sbagliato?

Sì, per due motivi. Primo, perché conferma una sorta di legame eccessivo, incestuoso, tra legge elettorale e riforma costituzionale. I costituenti ne discussero, ci fu una lunga querelle, alla fine della quale la disciplina elettorale rimase fuori della Costituzione proprio per assicurarle maggiore flessibilità. Oggi invece accade che la riforma costituzionale, nella parte che riguarda la Camera che vota la fiducia la governo, è la variabile dipendente di una legge ordinaria elettorale. Approvata, ripeto, con il voto di fiducia.

E il secondo motivo?

Per quelli che, come me, ritengono sbagliate le scelte riformiste che hanno investito la Costituzione, modificare l’Italicum non elimina quegli errori. Se mai ne rende meno gravose le conseguenze; ma i problemi legati alla debolezza nella genesi, nella rappresentatività, nelle competenze e nella funzionalità del nuovo Senato e i problemi legati all’eccesso di accentramento nel rapporto tra Stato e Regioni rimangono tutti irrisolti.

Stava dicendo della illogicità nella sequenza dei motivi con cui viene motivato il Sì. Vediamoli in dettaglio.

Prima motivazione: dovete votare Sì per esprimere un’adesione alla conduzione politica del governo. E quindi dare solidità e futuro al paese. Era il primo discorso di Renzi, dal carattere esplicitamente plebiscitario. Ricordo a me stesso che i costituenti, nella loro saggezza, suggerivano che il governo stesse fuori delle riforme costituzionali.

Vada avanti. 

Seconda motivazione, anch’essa renziana, dopo l’autocritica sulla prima motivazione: abbiamo fatto le riforme perché ci è stato delegato dal Presidente della Repubblica nel patto della sua rielezione (20 aprile 2013, ndr). Ma è una tesi che non regge.

E perché?

Perché le riforme costituzionali si fanno per una scelta politica del parlamento convalidata dal popolo, non per indicazioni provenienti dall’esterno, siano esse del Governo o del Presidente della Repubblica. È il Parlamento il luogo deputato alla maturazione di quella coerenza e di quella coesione necessarie a fare una buona riforma da sottoporre al vaglio popolare, quando la volontà parlamentare non superi una certa maggioranza.

Quando infine qualcuno ha fatto vedere al presidente del Consiglio la pericolosità della strada di personalizzare il referendum a tutti i costi, si è fatto un altro passaggio: votate Sì altrimenti andiamo nel caos. È vero?

Considero particolarmente inaccettabile quest’ultima motivazione, nella misura in cui sembra che siamo noi a invocare dai mercati globali e dai loro organi di informazione le istruzioni su come cambiare la Costituzione; come quando tornavamo da Bruxelles dopo aver chiesto all’Unione di imporci certe misure che non avevamo il coraggio di promuovere in prima persona, salvo poi parlare male di Bruxelles a casa nostra, perché lo aveva fatto. I mercati finanziari e i banchieri (con buona pace di certi loro precedenti) hanno tutti i diritti di fare richieste su norme anticorruzione, semplificazione normativa, efficienza dell’amministrazione, funzionamento della giustizia civile, etc.; ma non il diritto di dirci come dobbiamo modificare la nostra Costituzione. Esiste un equilibrio delicatissimo tra la dimensione finanziaria e quella istituzionale e politica che solo noi italiani possiamo e abbiamo il diritto e il dovere di valutare.

Chi preme in questo senso, professore?

Ad esempio quegli stessi organi di stampa che magnificavano la solidità di Lehman Brothers con la tripla A la sera prima che Lehman crollasse. Gli stessi che oggi parlano del nostro referendum costituzionale come di un nuovo rischio Brexit.

E la terza motivazione?

È più suadente ma è ancor più pericolosa. Che cosa stanno facendo infatti i fautori del Sì? Riconoscono sempre di più, progressivamente, gli errori della riforma. Insomma: secondo loro ci sono degli errori, sì, ma sono dettagli; li correggeremo dopo.

Una tesi che mira a svuotare il No come voto utile.

Esatto. Ma quella degli errori bagatellari è una tesi doppiamente pericolosa, perché dicono che si potrà porre rimedio dopo proprio le stesse persone per le quali non ci sono le condizioni per porre rimedio prima.

Una tesi approdata a lidi molto più rispettosi del dialogo, per fortuna. 

Apprezzo il cambiamento di rotta, ma continuo a dire no. Lo apprezzo perché in un primo momento l’asprezza della contrapposizione tra il Sì e il No rischiava di alterare il meccanismo referendario. Troppo delicato e troppo importante per venir bruciato sull’altare delle contingenze politiche. E una volta gettato dopo l’uso, non lo si crea più.

Può fare un esempio specifico di “pubblicità ingannevole”?

Si dice: nessun autoritarismo, anzi il popolo diviene ancor più protagonista, perché la riforma introduce due referendum che oggi mancano, quello consultivo e quello propositivo. Benissimo! Ma il modo con cui essi vengono proposti è più di immagine che di sostanza, perché nella riforma ci vien detto che i due nuovi istituti verranno introdotti con una legge costituzionale ulteriore e una legge ordinaria di attuazione. Ma che significa? Visto che si riscrive la Costituzione, qual è il momento per farlo? E’ ovvio che con legge costituzionale successiva lo si può sempre fare; ma la Costituzione non è proprio ciò che stiamo riformando ora? È evidente che si tratta più di un intervento di facciata e di un effetto-annuncio che non di una modifica effettiva.

Ma non crede che ora, nel confronto, stia prevalendo l’analisi specifica dei singoli aspetti della riforma? E che questo tipo di confronto, finalmente nel merito, aiuti il dibattito?

Ma il dibattito di chi? Mi domando che cosa la gente stia capendo; io per primo, come tanti, fatico a seguire. Ciò che conta è che il voto sia libero e consapevole, ma questo avviene nella misura in cui la consapevolezza è in tutti, anche in quelli che non hanno un bagaglio tecnico per poter analizzare tutte le sottigliezze dell’una o dell’altra scelta.

E il quesito non lo consente.

Sono le conseguenze del “peccato originale” di cui si diceva all’inizio: il plebiscito politico sul leader. La domanda è: si può evitare la politicizzazione del referendum, nel momento in cui si mette in piedi un meccanismo che modifica 40 norme della Costituzione e lo si consegna ad un unico voto referendario che mette insieme, in un unico quesito, gli aspetti più diversi? Si pensi alla differenza con il referendum del 1946, da cui nacque la Costituzione: la scelta tra repubblica e monarchia, accessibile a tutti i cittadini.

Cosa significa?

Che l’esame dei singoli punti qualificanti della riforma si può sempre fare, ma è destinato a finire nel nulla, perché il voto non è su alcuni di essi ma sul tutto che il loro insieme comporta; e questo “tutto” è una somma politica indebita di tante parti.  Il referendum è uno strumento democratico fondamentale di democrazia diretta, ma a condizione che si possa effettivamente esprimere una volontà popolare determinante su un oggetto determinato, come avvenne appunto il 2 giugno 1946.

Diversamente?  

Diversamente si rischia di scadere nel populismo e nella demagogia; e a quanto pare, non abbiamo imparato la lezione del passato. Il radicalismo referendario sappiamo bene che cos’è, lo abbiamo visto nelle ondate di referendum degli anni passati e nella reazione della politica a quelle ondate di referendum. Si ricorda quando qualcuno esortava ad “andare al mare” nel ’91 — voto sulla preferenza unica per la Camera dei deputati — o qualcun altro — referendum sulla fecondazione assistita (2005, ndr) — ad andare in chiesa? Sono sbagliati entrambi i modi.

E non mancano nemmeno i precedenti di una riforma costituzionale fatta troppo in fretta. Le dice niente la riforma del Titolo V della costituzione? Era il 2001…

Un referendum voluto dal centrosinistra su una riforma approvata con una maggioranza labilissima, in fretta e furia e per ragioni politiche, per compiacere e arginare Bossi. Un fallimento clamoroso, perché ha portato a un eccesso di decentramento, affidato tra l’altro a una classe politica regionale che ha dato sotto molti profili pessima prova di sé. E a questo decentramento si sta rispondendo adesso con un percorso opposto, uguale e contrario: un massimo di accentramento — senza peraltro toccare le regioni a statuto speciale, che semmai erano quelle da toccare; ma evidentemente si tratta di una scelta politica — e riscrivendo il collegamento tra centro e periferia in un modo che alimenterà nuovi conflitti di attribuzione tra Stato e regioni, analoghi anche se opposti, a quelli che abbiamo avuto fino ad oggi.

Il ministro Boschi continua a ripetere che la parte migliore della costituzione, la prima, non viene toccata.

Ma è davvero così? L’articolo 5 dice che “la Repubblica, una e indivisibile, riconosce e promuove le autonomie locali”. Ma la costruzione dello spazio delle autonomie non la troviamo forse nell’articolo 117? E dov’è il 117? E’ facilissimo osannare la prima parte scavando alle sue radici nella seconda parte, quella che, in questo caso, riscrive all’insegna del centralismo peggiore la ripartizione dei poteri stato-regioni.

Insomma le ragioni del No…

Le attingo non da elaborazioni tecniche (che possono essere diverse fra loro; tutte rispettabili; non facilmente comprensibili dai non tecnici), ma da tutto quello che ho detto: in particolare dal riconoscimento dei fautori del Sì che gli errori ci sono e della loro rassicurazioni di cambiare dopo. Sapendo perfettamente che sarà molto difficile se non impossibile cambiare qualcosa proprio per la affermazione di questi ultimi che è urgente decidere subito o mai più. Del resto, i mercati finanziari approvano…; ma siamo proprio sicuri che questo sia un buon viatico e una indicazione da seguire in materia di architettura costituzionale e quindi di diritti fondamentali di tutti versus profitto di pochi?