Di Valentina Stella perILDUBBIO.news
«Non si può presentare una riforma evocando da un lato l’arrivo della età dell’oro, se si vota Sì, e dall’altro l’arrivo dell’apocalisse, se si vota No»: questa la convinzione del professor Giovanni Maria Flick, presidente emerito della Corte Costituzionale, già Ministro della Giustizia nel Governo Prodi I, in merito al dibattito sul referendum costituzionale del prossimo 4 dicembre.
Secondo una corrente di pensiero l’iniziativa legislativa su questa riforma non doveva essere assunta dal Governo, dal momento che le riforme costituzionali devono essere di iniziativa strettamente parlamentare.
Non farei un discorso così rigoroso, non direi che le riforme costituzionali debbono essere prese su iniziativa “strettamente” parlamentare. Però l’articolo 138, parlando di cambiamenti della Costituzione, prende in considerazione il Parlamento e il corpo elettorale, non il Governo o il Presidente della Repubblica. Un padre costituente e costituzionalista autorevole ricordava che quando Parlamento e popolo discutono di riforma costituzionale i banchi del Governo devono restare vuoti; altrimenti capita quello che oggi si sta verificando: un coinvolgimento del Governo e quindi una trasformazione del referendum in un voto politico contingente su quel Governo. Il Governo precedente presentò su mandato del Parlamento la proposta di istituire una commissione legislativa di riforma della Costituzione; il Governo attuale è andato ben oltre, chiedendo e ottenendo la fiducia per la presentazione da parte sua di un testo di riforma.
Adesso Renzi sostiene di aver sbagliato a personalizzare il voto.
È positivo un riconoscimento di questo genere. Ma mi pare che nonostante la sua intenzione di fare marcia indietro il problema rimanga. Nel momento in cui il Governo si impegna in prima persona, in modo molto attivo, evidentemente il discorso sul referendum rischia di diventare o diventa una valutazione sul Governo.
Magari si sarebbe potuti giungere alla approvazione di questa riforma con più calma ed in maniera meno affrettata?
Diciamo con un minor protagonismo e un minor intervento pressante del Governo e con una maggior ricerca di coesione.
Anche l’iniziativa del disegno di legge costituzionale che nel 2001 portò alla modifica del Titolo V della Costituzione venne assunta dal Governo di allora.
Anche nel 2001 si è fatta, sbagliando, una riforma in fretta e furia, con pochi voti di maggioranza, per ragioni politiche contingenti – anticipare certe istanze della Lega – e sul finire della legislatura. L’iniziativa fu parlamentare, ma l’impulso decisivo venne dalla proposta del Governo; il risultato è sotto gli occhi di tutti e rende necessario il cambiamento.
La riforma Renzi-Boschi a detta di alcuni costituzionalisti contiene troppi rinvii a future leggi costituzionali e ordinarie e prevede un numero non irrilevante di adempimenti successivi.
La riforma punta molto su una serie di interventi successivi, in sede regolamentare e in sede di formazione o di modifica della legge elettorale. Tutto questo solleva qualche perplessità: questi interventi si faranno oppure rimarranno soltanto buoni propositi?
Un’altra critica che viene fatta è che il combinato disposto di questa riforma e dell’Italicum metterebbe le istituzioni in mano a una sola forza politica. In pratica, pur non toccando la forma di Governo, si verrebbe a creare una sorta di “premierato assoluto”.
Siccome si sta discutendo se ed in che modo vada cambiato l’Italicum, un discorso di questo genere è prematuro. Vorrei tenere distinte le due cose: una cosa è la riforma costituzionale e gli errori che a mio avviso essa contiene; un’altra cosa è la legge elettorale (l’Italicum) che potenzia gli effetti di quegli errori. Cambiando la legge elettorale si attenuano ma non si eliminano gli errori della riforma; per questo mi lascia perplesso chi è contrario a quest’ultima, ma dice che la voterà se cambia l’Italicum.
Renzi ha voluto fortemente questa legge elettorale e poi nella direzione del Pd ha dichiarato di essere disposto a modificarla.
Un anno fa la legge sull’Italicum è stata approvata a colpi di fiducia dicendo che era la legge migliore possibile e che non era toccabile in alcun punto. A meno di un anno di distanza si decide di cambiarla. Non vorrei che lo stesso problema ce lo trovassimo di fronte fra qualche tempo con la riforma costituzionale.
Come giudica la composizione del nuovo Senato?
Male, perché continuo a pensare che una elezione non chiara nel modo in cui si svolge, con la partecipazione da un lato dei Consigli regionali e dall’altro – non si capisce bene come – del corpo elettorale, crea molti problemi e non dà una legittimazione sufficiente al Senato. Per fortuna qualcuno propone di tornare all’elezione diretta dei senatori, una soluzione che era stata già avanzata e respinta.
Se è solo la Camera a dare la fiducia al Governo, non pensa che l’elezione diretta dei senatori verrebbe a creare uno squilibrio istituzionale?
Non mi pare. Io credo che ci possa essere una Camera politica, come in esperienze di altri ordinamenti, una Camera cioè che si occupa più del discorso politico generale – la fiducia al Governo – e un Senato che si occupa di più degli interessi e della realtà territoriale.
E come giudica i compiti e le funzioni del nuovo Senato?
Il Senato dalla riforma è caricato di una serie di compiti molto impegnativi. Mi sembra difficile che possano essere svolti come doppio lavoro da parte di consiglieri regionali che dovrebbero già essere molto occupati nel lavoro di amministratori regionali. E mi sembra anche che l’attribuzione di tutta questa serie di funzioni al Senato, avvenuta progressivamente nelle discussioni sulla riforma, abbia un carattere di disorganicità.
Che giudizio dà della decisione di estendere l’immunità parlamentare ai nuovi senatori?
Chi svolge il compito di senatore deve avere l’immunità al pari dei deputati. Fanno lo stesso mestiere; ciò non vale invece per i consiglieri regionali “semplici”. Cumulare entrambe le funzioni può generare una confusione tra quello che si fa come senatore e quello che si fa come consigliere regionale. Tutto questo sarà fonte di conflitti di attribuzione: sarà la Corte Costituzionale a dover decidere, in caso di contrasto, se ciò che fa la persona investita della doppia carica appartenga alla funzione senatoriale (quindi con l’immunità) o a quella regionale (quindi senza l’immunità).
Il bicameralismo temperato, così come delineato da questa riforma costituzionale, riuscirà a funzionare o aumenterà la confusione e il contenzioso tra Camera e Senato?
Io non ho la palla di vetro: mi pare che il procedimento legislativo – che occupa nella riforma ben due colonne della Gazzetta Ufficiale, invece di una riga e mezza come ora – sarà fonte di complicazioni, di incertezze e di dubbi su ciò che spetta legiferare in via esclusiva alla Camera e ciò che spetta legiferare anche al Senato. Tanto è vero che la stessa riforma prevede, in caso di disaccordo tra le due Camere, la decisione dei loro due Presidenti. Ma non è una questione rimessa alla buona volontà dei Presidenti; è una questione di conflitto che dovrà essere inevitabilmente affrontata dalla Corte Costituzionale.
Passiamo ora alla riscrittura del Titolo V relativo ai rapporti tra Stato e Regioni. Giudica positivamente questa parte della Riforma o anche Lei ritiene che queste modifiche accentueranno il centralismo?
A mio avviso nel 2001 il Titolo V è stato riformato con un decentramento eccessivo e con una formulazione – la distinzione tra le competenze legislative esclusive dello Stato, le competenze concorrenti fra esso e le Regioni, quelle residuali di queste ultime – che ha generato una serie infinita di conflitti tra lo Stato e le Regioni, di cui ha dovuto occuparsi a fondo la Corte Costituzionale. La nuova formulazione del Titolo V da un lato passa all’estremo opposto, al troppo accentramento. Dall’altro lato rimane la confusione e l’ambiguità per la presenza nella riforma di una serie di clausole ambigue sulle finalità, sugli interessi e sulle disposizioni generali comuni che spettano allo Stato.
Quali saranno le conseguenze?
In sostanza si mantiene la stessa ambiguità e la stessa possibilità di conflitti che c’è adesso. Faccio un esempio: fino alla riforma del 2001 la tutela dei beni culturali era di pertinenza dello Stato; con la riforma del 2001 si è distinto tra la tutela affidata allo Stato e la valorizzazione affidata alle Regioni: fonte di conflitti a non finire. Adesso la nuova disciplina riaccorpa nello Stato tutela e valorizzazione, ma affida alle Regioni la promozione; mi pare che questo sarà foriero di conflitti per distinguere tra valorizzazione e promozione. Ancora: con la riforma del 2001 la potestà tributaria delle Regioni si esercitava secondo i princìpi di coordinamento del sistema tributario; con la riforma attuale si eserciterà secondo quanto disposto dalla legge dello Stato ai fini del coordinamento.
Però secondo alcuni l’accentramento verrebbe compensato dal nuovo Senato della Autonomie territoriali.
Se io fossi un consigliere regionale e mi si dicesse ‘preferisci mantenere delle competenze specifiche oppure preferisci avere un Senato delle Regioni?, non avrei dubbi e preferirei la prima soluzione.
Questa riforma, inoltre, non tocca le Regioni a statuto speciale. Un errore?
Secondo me è incomprensibile, perché il problema maggiore della riforma dei rapporti tra Stato e Regioni c’è proprio per le Regioni a statuto speciale che dall’entrata in vigore della Costituzione godono di particolari autonomie legate alla situazione di quel tempo: gli appetiti della Francia sulla Valle D’Aosta, gli appetiti dell’Austria sull’Alto Adige, gli appetiti dell’Ex-Jugoslavia sul Friuli Venezia Giulia, e le tendenze separatiste in Sicilia. Poi c’è anche la Sardegna, la quale è stata assimilata alle altre per la sue condizioni di estrema difficoltà economica. Il vero problema, a 70 anni da allora, è quello semmai di modificare il regime delle Regioni a statuto speciale che non è più giustificato.
Forse era troppo complicato intervenire anche su questo aspetto?
Diciamo per esempio che per quanto riguarda l’Alto Adige c’è di mezzo un accordo internazionale con l’Austria. Per le altre Regioni c’è da superare un problema di disciplina costituzionale – ma questa è appunto una legge di riforma costituzionale – e di accordo dello Stato con esse. Per questo credo fosse politicamente più complicato un intervento sulle Regioni a statuto speciale, che avrebbe richiesto il concorso di queste ultime.
Con questa riforma diminuisce il numero dei Parlamentari, si abolisce il Cnel, si tolgono le Province, si prevede un tetto alle indennità dei consiglieri regionali e si fa divieto alle Regioni di finanziare i gruppi regionali. E’ dunque esatto dire che i costi della politica diminuiranno?
Secondo me il tema dei costi della politica non è un tema che possa giustificare una riforma costituzionale, anche perché quando si comincia a parlare di costi della politica si rischia sempre di arrivare a parlare dei costi della democrazia. E questa è una prospettiva preoccupante; penso ad esempio agli inviti dei mercati o di certi enti economici sovranazionali a diminuire il tasso di democrazia nel sud del Mediterraneo perché ci sarebbe un eccesso di democrazia, un eccesso di costituzionalità, in fondo un eccesso di tutela dei diritti. Detto questo, le economie si possono fare in molti modi, anche diversi, e non toccando l’impianto costituzionale; per esempio invece di avere una Camera dei Deputati di 600 componenti e un Senato di 100, di cui 5 sono nominati per meriti, si poteva forse diminuire sia il numero dei componenti del Senato che quello dei componenti della Camera, ottenendo lo stesso risultato.
Qualcuno della maggioranza ha sostenuto che sarebbe stato difficile far approvare anche una diminuzione dei deputati.
Ogni riforma è un compromesso. Il problema è che il compromesso costituzionale va cercato con la più ampia coesione e condivisione tra maggioranza e opposizione: non è che le riforme costituzionali debbano essere approvate necessariamente all’unanimità. Nello spirito dell’articolo 138 della Costituzione occorrerebbe un tipo di approccio e di coesione diverso da quelli con cui è stata elaborata la riforma.
Invece di parlare di diminuzione di costi della politica, c’è chi preferisce mettere l’accento sulla semplificazione e sullo snellimento delle procedure che col tempo potrebbero apportare risparmi e benefici.
Mi sembra che l’articolo 70, che disciplina il procedimento legislativo, invece di semplificare complichi le cose; lo stesso vale per i probabili conflitti di attribuzione fra Stato e Regioni.
Lei è Presidente emerito della Corte costituzionale: condivide la scelta di lasciare al nuovo Senato il potere di eleggere due giudici della Corte Costituzionale?
Ci sono profili contrastanti. Da un lato in una elezione congiunta tra una Camera di 630 persone e un Senato di 100 persone, il Senato rischia di essere sommerso. Dall’altro lato però la distinzione tra l’elezione della Camera e l’elezione del Senato fa pensare in qualche modo a dei giudici costituzionali i primi dei quali rappresentano la Camera, i secondi rappresentano il Senato: il che non può essere perché i giudici sono eletti dal Parlamento ma non sono rappresentanti del Parlamento, al pari di quelli eletti dalle alte magistrature e di quelli nominati dal Presidente della Repubblica, che non rappresentano né le une né l’altro.
Lei prima parlava di democrazia: qual è il Suo giudizio sui nuovi strumenti di democrazia diretta che vengono inseriti nella nostra Costituzione?
In teoria molto positivo. La riforma propone l’introduzione di nuovi referendum (consultivo e propositivo). Noi oggi abbiamo soltanto come strumenti di democrazia diretta l’iniziativa popolare per presentare le leggi e il referendum abrogativo delle leggi che già ci sono, oltre al referendum che conferma le riforme costituzionali. Tuttavia mi sembra più una operazione annuncio perché i nuovi referendum dovranno essere introdotti con legge costituzionale e quindi rischiamo di aver un bel proposito o una bella promessa che rimane lettera morta; averlo scritto ora in Costituzione o non scriverlo non serve proprio a nulla.
Come giudica l’introduzione di questa seconda modalità di referendum abrogativo: 800 mila firme e conseguente abbassamento del quorum deliberativo?
Mi sembra che sia giustificato l’aumento del numero delle firme, anche perché la previsione originaria era collegata ad una popolazione italiana inferiore a quella attuale. Una cosa che forse andrebbe valutata è la possibilità del giudizio di ammissibilità del referendum prima della raccolta delle firme, da parte della Corte Costituzionale.
Con questa riforma si prevede l’introduzione di quorum molto alti per l’elezione del Presidente della Repubblica, mentre la sua messa in stato d’accusa rimane a maggioranza assoluta dei componenti di ciascuna Camera: non Le sembra contraddittorio?
Mi pare di capire che il problema è diverso: mentre la messa in stato di accusa è calcolata sulla base del numero della maggioranza dei componenti della Camera, l’elezione del Presidente della Repubblica dopo un certo numero di elezioni infruttuose è parametrata alla maggioranza dei votanti. Io francamente su questo non me la sento di condividere certe perplessità dei fautori del NO, secondo i quali in questo modo il Presidente della Repubblica dopo un certo periodo di tempo può essere eletto in realtà da una minoranza. Chi vuole impedire questo ha il dovere di andare in Aula e di votare. Comunque il contrasto su questo come su molti altri punti della riforma dimostra come essa poteva e doveva essere scritta meglio e come non sarà facile applicarla.
Sono previsti anche limiti più stringenti alla decretazione d’urgenza e l’introduzione del voto a data certa sulle proposte di legge del Governo.
Ipotesi sacrosanta che già si voleva perseguire con i regolamenti parlamentari. Per quanto riguarda invece i limiti alla decretazione di urgenza, vorrei dire che essi erano stati già introdotti dalle sentenze della Corte Costituzionale, vere e proprie modifiche della Costituzione. Forse i Presidenti della Repubblica – che pure hanno più volte deplorato, anche con messaggi al Parlamento, l’abuso della decretazione e delle modifiche estranee inserite dal Parlamento nelle leggi di conversione – avrebbe dovuto trarne le conseguenze in modo più coerente e deciso: non emanare decreti contenenti norme parlamentari prive dei requisiti di necessità e urgenza; soprattutto non promulgare alcune leggi di conversione a volte solo apparentemente approvate dal Parlamento, ma frutto di maxiemendamenti dello stesso Governo, approvati con il voto di fiducia.
Cosa pensa dei commenti arrivati dall’estero, come quello dei Financial Times, sul referendum?
Alcuni organi internazionali, gli ambasciatori e i media finanziari hanno il diritto/dovere di dirci cosa i mercati si aspettano da noi per investire in Italia: lotta alla corruzione, creazione delle infrastrutture necessarie per la giustizia e per la pubblica amministrazione. Non credo però che possano arrivare fino al punto di suggerirci come si debba cambiare l’architettura costituzionale di questo Paese. Questo è un qualcosa che appartiene esclusivamente alla nostra sovranità. Ed è un po’ troppo invadente il fatto di dire votate SI al bicameralismo perché altrimenti non veniamo più ad investire da voi.
È vero che la riforma contiene degli errori?
Anche i fautori del SI cominciano a riconoscere che la riforma è scritta male e contiene degli errori. Essa contiene anche qualche aspetto positivo – ad esempio abolizione del Cnel; limitazione della fiducia alla Camera dei Deputati; introduzione del princìpio di trasparenza per i pubblici uffici – ma gli errori, soprattutto nella riforma del Titolo V e del Senato, superano largamente i vantaggi e sono di dimensioni tali che non possono essere considerati bagatelle così come dicono i fautori del SI, promettendo che verranno corretti.
Però alcuni sostengono che questa è una riforma in linea con le proposte formulate da circa 30 anni.
Non mi pare. Il problema è che in 30 anni vi sono state varie riforme costituzionali; penso ad esempio alla riforma dell’articolo 81 della Costituzione sul rapporto tra spese ed entrate e prima a quella sulla parità dell’accesso agli uffici pubblici e alle cariche elettive. Quindi non è vero che non ci sono state modifiche: ci sono e ci possono continuare ad essere se solo si lavora con un metodo diverso.
Secondo i radicali il quesito referendario sul quale saremo chiamati ad esprimerci il prossimo 4 dicembre non avrebbe dovuto essere complessivo, ma per parti separate e distinte per dare all’elettore la possibilità di scegliere.
Nella sostanza i radicali hanno sacrosanta ragione. Un quesito complesso che contiene una serie di argomenti e di temi diversissimi l’uno dall’altro non rende facile la comprensione del quesito e la formulazione della volontà dell’elettore; impedisce all’elettore di selezionare la propria scelta. Però bisognava pensarci prima, facendo proposte di riforma separate le une dalle altre e non dopo spacchettando il quesito finale, perché nel referendum confermativo il corpo elettorale è chiamato a confermare o meno la proposta già fatta dal Parlamento. Tutto questo non rende evidentemente facile e comprensibile come dovrebbe il quesito; ma il referendum, la forma più alta di democrazia diretta, funziona solo a condizione che l’elettore conosca e comprenda il contenuto del quesito.
Su quest’ultimo punto, qualche esponente dei vari fronti del no lamenta che non ci sia una corretta e bilanciata informazione sul SI e sul NO.
Uno dei primi problemi e doveri della democrazia a me sembra quello di abbassare i toni e di eliminare il rumore di fondo. Mi sembra che le polemiche per il SI e per il NO che stanno continuando a proliferare impediscano la formazione serena di una consapevolezza. Settanta anni fa un referendum per nulla facile, quello tra Monarchia e Repubblica, ha unificato il Paese in un momento molto difficile. Non vorrei che adesso un referendum su di un tema di carattere tecnico spaccasse l’Italia così come sta facendo. Non credo si possa chiedere al cittadino una conoscenza tecnica dei vari profili della disciplina costituzionale della riforma; un dibattito su tutti questi tecnicismi complica le cose. Credo che la domanda di fondo sia questa: vuoi cominciare a cambiare approvando una riforma ad avviso di molti (compreso il sottoscritto) sbagliata in alcune parti essenziali che non è per nulla facile correggere, o preferisci evitare di sbagliare e quindi aspettare che si faccia una riforma priva di quegli errori? E non vedo perché in questo caso si debba aspettare trenta anni; dipende solo da noi.
Il Comitato del Sì sostiene che questa riforma sblocca il Paese, abbatte i costi della politica, snellisce le procedure di approvazione delle leggi, rende più efficienti le nostre istituzioni e dà maggiore stabilità al Governo, mentre i fautori del No sostengono che se queste modifiche costituzionali venissero confermate la nostra democrazia correrebbe un serio pericolo. Lei come commenta?
Non si può presentare una riforma evocando da un lato l’arrivo della età dell’oro, se si vota Sì, e dall’altro l’arrivo dell’apocalisse, se si vota No. Non si può drammatizzare l’esito del referendum con conseguenze o del tutto positive in un senso o del tutto negative nell’altro senso. È un cambio di una parte significativa della Costituzione che non rappresenta a mio avviso di per sé una svolta autoritaria, ma che introduce una serie di errori gravi e perciò non potrà raggiungere gli obiettivi di semplificazione e di efficienza che dice di voler perseguire.