Una riflessione su infermità, vecchiaia e diritti alla vigilia dell’Alzheimer Fest di Levico Terme pubblicata su LaLettura del Corriere della Sera
“… se di vecchiezza / la detestata soglia evitar non impetro… sconsolato volgerommi indietro.” (Giacomo Leopardi – Il passero solitario)
Sono sempre più numerose le persone che attraversano la soglia detestata dal poeta. La popolazione invecchia, anche in Italia; aumenta la frattura fra generazioni, che si lega fra l’altro alla diminuzione delle possibilità intellettuali dell’anziano, alla sua più ridotta capacità di apprendimento, di memoria e di attività.
V’è il rischio che l’aumento dei costi di protezione sociale risolva la crescita della popolazione e della età soltanto in un problema demografico ed economico; che si trascurino la dimensione personale e la fragilità dell’anziano. Quest’ultima richiede maggior attenzione, prevenzione e cura, per il suo legame con la possibilità di malattie, con la perdita di autosufficienza, con quella di autostima.
La vecchiaia è stata definita una condizione di patologia (per la disfunzione delle modalità sensoriali, motorie e cognitive) fisiologica (perché giunge per coloro che varcano la soglia di essa). Ma vanno crescendo le situazioni di patologia tout court, in cui si varca anche un’altra soglia: quella della demenza senile nella forma più grave, l’Alzheimer. È un problema molto serio in una società che “non è un paese per vecchi” per il suo dinamismo ed efficientismo; per le sue logiche di competitività e di profitto; per il suo egoismo ed avidità; per i suoi rigurgiti di intolleranza quando non di violenza verso i diversi e i più deboli, come l’anziano o il malato.
Si stima che l’Alzheimer colpisca il 5% della popolazione dopo i sessantacinque anni, aumentando sino al 40% oltre gli ottanta anni, con una durata media di dieci anni della malattia e della vita. È una patologia neurodegenerativa cronica, progressiva e irreversibile, il cui decorso allo stato non può essere fermato ma solo rallentato.
Non si conoscono ad oggi farmaci efficaci per la sua cura. La loro ricerca è ostacolata sia dai costi e dalla incertezza sugli obiettivi e sui campi del suo sviluppo; sia – conseguentemente – dalla probabilità della mancanza di un ritorno in termini di profitto per il settore privato; dalla insufficienza di risorse per il settore pubblico. Ci si dimentica troppo facilmente del debito che la società ha nei confronti di chi prima di noi ha contribuito ad essa con il proprio lavoro ed impegno: una sorta di restituzione nel momento del bisogno; una specie di “retribuzione differita” al pari della pensione (quando non è d’oro o non è mera assistenza).
La patologia dell’Alzheimer è ben più distruttiva dell’indebolimento della memoria e della capacità, che è fisiologico per l’anziano. È un taglio netto e irreversibile con il passato, con la memoria, con l’ambiente di vita e di esperienze della persona. Compromette perciò la capacità di relazioni sociali e affettive; modifica il comportamento del malato e talvolta ne alimenta l’aggressività; incide sul suo orientamento spaziale e temporale, sulla sua capacità di linguaggio e di attività funzionale (anche la più semplice, come camminare e vestirsi), su quella di riconoscere gli altri.
Insomma, è una patologia che altera e distrugge la personalità, l’identità e la dignità della persona, i suoi legami affettivi e sociali: valori fondanti del personalismo sociale. Questi ultimi sono alla base della nostra Costituzione, unitamente al solidarismo che è inscindibile dal personalismo e svolge un ruolo insostituibile nell’affrontare la tragedia dell’Alzheimer.
È una tragedia per il malato, per i suoi familiari, per la società. Fra le sue conseguenze vi sono la necessità ed i costi di una prevenzione, cura, assistenza non soltanto sanitaria ma anche familiare e sociale; la necessità di un sostegno anche economico al malato e alla sua famiglia, per non scaricare soltanto su di essi il peso di quella tragedia (come purtroppo accade, ad esempio in materia di assistenza psichiatrica).
La formazione del personale medico, sanitario e di assistenza sociale; la realizzazione di strutture per l’accoglienza e la cura (preferibilmente domiciliare); l’allocazione delle risorse finanziarie per questo fondamentale settore della politica sanitaria; la funzionalità e accessibilità degli strumenti giuridici perché il malato possa essere assistito nel far valere i propri diritti ed interessi: sono questi, in sintesi, alcuni tra i passaggi più necessari di un intervento doveroso per riconoscere al malato la sua pari dignità sociale.
Presuppongono una condizione senza se e senza ma: il riconoscimento che il malato è e rimane persona sino al termine della malattia, che coincide con quella della vita. Richiedono – prima delle leggi e delle strutture – una consapevolezza e una cultura del rispetto per la sua diversità patologica. Impegnano tutti e ciascuno (la famiglia, le strutture pubbliche, il volontariato) a promuovere l’eguaglianza di quella persona e la solidarietà verso di essa; a rimuovere le condizioni della sua solitudine interiore ed esteriore, che è l’anticamera della morte e della solitudine della sua famiglia.
Le ragioni per una riflessione e per una mobilitazione di tutti e di ciascuno nei confronti dell’Alzheimer sono molteplici. Sono la sua diffusione e apparente ineluttabilità; l’inizio e la crescita di una consapevolezza del problema; la necessità di attuare maggiormente la Costituzione nel suo settantesimo anniversario di vita, raccogliendone le indicazioni in tema di dignità, identità, relazione con gli altri, eguaglianza e solidarietà.
Quelle indicazioni si riassumono nella reciprocità fra diritti inviolabili e doveri inderogabili di solidarietà sociale; nella pari dignità sociale e nella necessità di rimuovere gli ostacoli di fatto ad essa; nel diritto di tutti alla propria identità e alla diversità nell’eguaglianza; nel diritto ai “residui di libertà” e di autodeterminazione che sopravvivono alla malattia; nel diritto fondamentale alla salute e in quello all’assistenza sociale. Sono diritti richiamati anche dalla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea, vincolante per il nostro ordinamento: il diritto degli anziani « di condurre una vita dignitosa e indipendente e di partecipare alla vita sociale e culturale ».
È un diritto nel momento del declino e del tramonto dell’anziano che si collega idealmente al diritto « alla protezione e alla cura » e al best interest del bambino, nel momento della sua nascita, sviluppo e crescita.
Si può cogliere un parallelismo tra l’autismo del bambino e l’Alzheimer dell’anziano, ferme restando le molteplici differenze fra le due realtà. L’autismo si traduce in un ostacolo allo sviluppo, alla interazione sociale, alla capacità di comunicazione del bambino. L’Alzheimer aggrava per l’anziano il deficit di memoria, di rapporto con l’ambiente e con gli altri. Un duplice attacco frontale ai fondamenti del personalismo sociale richiamati dalla Costituzione, nei momenti cruciali dell’inizio e della conclusione dell’esperienza umana.
Forse per questo fra il bambino e l’anziano colpito da Alzheimer vi può essere una misteriosa solidarietà e capacità di dialogo, di comprensione reciproca. Gli occhi dei bambini (come ho avuto occasione di ricordare in precedenza, in altra sede) riescono a compiere il miracolo sognato da Eugenio Montale; riescono a vedere pur avendo «il nulla alle spalle» e il «vuoto dietro». I bambini sono «all’altezza delle piccole cose» – come direbbe Simone Weil – proprio perché il loro sguardo è incorrotto, privo di condizionamento storico, della sovrastruttura. Il loro sguardo va diretto alle cose; è capace di leggerle e di osservarle senza farsene immagini fuorvianti. È lo sguardo del piccolo principe di Antoine de Saint Exupéry.
Per questo il dialogo tra il bambino e l’anziano – soprattutto quello affetto da Alzheimer – forse è più agevole di quello fra quest’ultimo e gli altri adulti, indaffarati e pressati da mille incombenze e preoccupazioni.
È un dialogo tra un nonno consapevole di perdere la memoria ed un nipote al quale cerca di trasferirla tenendosi per mano e trasmettendo la sua esperienza e i suoi ricordi, perché continuino a vivere e non svaniscano. È «la memoria dell’albero» descritta efficacemente da Tina Valles nel raccontare la passeggiata quotidiana del nonno e del nipote: una consapevolezza che si spegne, un’altra che si afferma e cresce.
È un messaggio di speranza e di fiducia che illumina un futuro altrimenti di preoccupazione, se non di disperazione e di oscurità; un messaggio del quale mi sembra abbiamo molto bisogno in questi tempi.