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Criminalità organizzata e corruzione: tra il dire e il fare…

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Intervento di Giovanni Maria Flick per l’incontro “Italia interrotta: il peso della corruzione sulla crescita economica”. Camera dei Deputati, Roma, 12 settembre 2018

Serve “uno sforzo per la cultura della reputazione, della vergogna e della legalità”

Da qualche tempo il tema della lotta alla criminalità organizzata e alla corruzione sembrava sostituito da altri (l’immigrazione, le nazionalizzazioni, il conflitto con l’Europa) nel dibattito mediatico e politico, tranne il richiamo di qualcuno all’emergenza che esso rappresenta tuttora per il nostro paese. Quel tema affiora ora nella polemica sulle concessioni e sui disastri come il crollo del ponte Morandi a Genova, con l’ombra della corruzione. Perciò si preannunziano per quest’ultima interventi nuovi e risolutivi: l’ennesimo aumento delle pene per i responsabili e anche per l’impresa interessata (se si riuscirà ad applicarle); il Daspo (che però esiste già dal 1981 con successive modifiche, nel divieto temporaneo di contrattare con la pubblica amministrazione che oggi diverrebbe perpetuo di diritto o di fatto, per evitare censure di incostituzionalità); l’agente “sotto copertura” (anch’esso già previsto in altri casi e molto discutibile, se si volesse invece trasformarlo in un “agente provocatore”); un “premio” per il corrotto o corruttore “pentito” che confessi prima di essere scoperto e restituisca il maltolto; l’applicazione delle norme sulla trasparenza ai partiti politici e alle fondazioni ex bancarie.

Già si parla di modifiche in Parlamento della proposta del Governo, che ha incontrato dissensi fra le due componenti della maggioranza e ha registrato sia approvazioni che critiche di eccessivo rigore o al contrario di lassismo fra gli addetti ai lavori. Essa è stata presentata con qualche enfasi come una rivoluzione nella lotta alla corruzione, uno “spazza-corrotti”. Si vedrà alla prova dei fatti, ricordando che prima di applicare le sanzioni occorre individuare e condannare in via definitiva i responsabili, prescrizione permettendo; ricordando che è importante a tal fine rompere il vincolo di omertà e segretezza tra corruttore e corrotto. Quella proposta forse offre l’occasione – nel contesto di una giustizia notoriamente paralizzata – per riflettere brevemente sul modo di reagire di fronte a Mafiacity e a Tangentopoli: due mali endemici (ben prima delle stragi di Capaci e di via D’Amelio e di Mani Pulite) per la vita del nostro paese, per la crisi nel suo sviluppo, per il rapporto fra diritto, economia e politica. Entrambi quei mali incidono pesantemente sulla capacità di attrarre investimenti esteri e sulla competitività; provocano ingenti aumenti dei costi e sprechi di risorse; inquinano con il denaro sporco l’economia e l’impresa legale; corrodono alla base la fiducia e il senso della legalità.

I due tipi di criminalità – organizzata e corruttiva – si saldano strettamente. Dove non basta il ricorso alla violenza e all’intimidazione della prima, soccorre quello alla forza di persuasione della seconda e viceversa; presentano aspetti (l’omertà) e obiettivi (il profitto illecito) comuni. Si giustifica così l’utilizzo entro certi limiti degli stessi strumenti di contrasto nei loro confronti; non si giustifica invece la loro asserita identità e sovrapposizione, perché la criminalità organizzata si fonda sulla violenza e la corruzione sullo scambio illecito.
Per questo la pericolosità della criminalità organizzata è avvertita ben più di quella della corruzione. Solo ora – in tempi di crisi e di globalizzazione dei mercati – si guarda con preoccupazione alla corruzione: più a quella percepita che a quella reale di cui è difficile conoscere gli effettivi costi e dimensioni. Ne è conferma lo sviluppo ben più marcato e incisivo della azione di contrasto alla criminalità organizzata nei venticinque anni trascorsi a partire dal 1992: le misure di prevenzione patrimoniale; i relativi strumenti di indagine; i maxiprocessi; le videoconferenze; il codice antimafia etc. Invece l’azione di contrasto alla corruzione – nonostante i reiterati buoni propositi – è iniziata in pratica soltanto a partire dal 2012: con l’inasprimento reiterato delle pene; con il codice degli appalti e i suoi problemi; con l’istituzione di una autorità anticorruzione tuttofare; con l’introduzione di nuovi reati, come la corruzione per l’esercizio della funzione, quella per induzione, il traffico di influenze; con la previsione di una serie di obblighi e di controlli prevalentemente burocratici, formali e fra loro sovrapposti; con l’imposizione a tappeto di una trasparenza altrettanto formale. I risultati non sono stati particolarmente brillanti, a giudicare dalla reiterazione dei fatti di corruzione; i controlli burocratici rischiano di intralciare inutilmente l’attività imprenditoriale.

Mafiacity e Tangentopoli si collocano entrambe nel territorio esteso di Nerolandia. In esso la mancanza di trasparenza effettiva (si pensi alla soppressione di fatto e alla reintroduzione tardiva dell’incriminazione per falso in bilancio; alle carenze più volte denunziate del diritto penale societario e fallimentare); l’evasione fiscale; la globalizzazione degli scambi e dei mercati; la molteplicità e diversità di fonti normative e giurisprudenziali (il c.d. multilevel) rendono sempre più difficile la tranciabilità del denaro (da dove proviene e dove va). La tranciabilità è però essenziale per individuare il duplice obiettivo della criminalità organizzata e di quella corruttiva: consentire la conservazione e il reinvestimento del denaro frutto di attività criminale; trasformare in impresa lecita quella illecita che produce quel denaro e se ne alimenta.

Un problema essenziale da risolvere per contrastare la criminalità organizzata è rappresentato dal c.d. secondo livello: quello degli insospettabili. La loro professionalità, esperienza e rispettabilità consente di far circolare, lavare ed investire il denaro sporco, attraverso istituti di credito, società finanziarie, professionisti non sempre e non necessariamente consapevoli della realtà in cui e per cui operano.

È il problema del c.d. concorso esterno nell’associazione di tipo mafioso senza fare parte di quest’ultima, ma prestando ad essa un aiuto consapevole e causalmente determinante. Qualcuno (compresa la Corte CEDU di Strasburgo) mette in dubbio la sua punibilità in mancanza di una previsione normativa specifica; tuttavia a molti essa non sembra necessaria poiché in realtà la punibilità si fonda sull’interpretazione e sull’applicazione di norme generali del codice penale.

Per la corruzione, un profilo problematico è rappresentato dalla tendenza a ricomprendere in essa la c.d. maladministration: una sorta di corruzione colposa che affiancherebbe quella tradizionale, dolosa. È una tendenza in qualche modo favorita dalla imprecisione nella definizione legislativa della condotta corruttiva, dovuta anche alla molteplicità delle fonti normative (quella nazionale e quelle convenzionali e sovranazionali). Rischia di dilatare eccessivamente la portata dell’incriminazione e di complicarne l’interpretazione.

Un altro profilo problematico della corruzione – nel contesto della sua internazionalizzazione in un mercato globale – è la riduzione sostanziale di essa ad un delitto contro la concorrenza. Quest’ultima è certamente danneggiata dalla corruzione; ma esasperando questa prospettiva si rischia, nel rapporto fra stati, di utilizzare la sua repressione come strumento per liberarsi di concorrenti stranieri scomodi, a favore dei propri imprenditori.

Infine, due aspetti problematici sono riferibili a entrambe le forme di criminalità. Il primo è rappresentato dalla sperimentata insufficienza di perseguire soltanto le persone fisiche per questi (e altri) delitti; e di “ignorare” le realtà giuridiche e imprenditoriali nell’interesse delle quali le persone fisiche agiscono. Sulla base di impegni internazionali si è cercato di risolvere il problema chiamando l’impresa – ovviamente con la minaccia di sanzioni pecuniarie o interdittive adeguate – a rispondere del delitto commesso dai suoi dipendenti e/o dai vertici, se non prova di aver adottato una organizzazione e dei modelli in grado di impedire quel tipo di delitto. Le ambiguità e le difficoltà sperimentate nell’applicazione di questo rimedio – modulato soprattutto sulla esperienza di oltre atlantico – hanno impedito di ottenere risultati soddisfacenti nel suo primo quindicennio di vita, a dire degli stessi magistrati chiamati ad applicarla.

Il secondo aspetto problematico – soprattutto per la corruzione – è rappresentato dalla scarsa efficacia di una repressione la quale, nonostante la minaccia di una pena in teoria sempre più elevata, è in pratica vanificata dai tempi lunghissimi della nostra disastrata giustizia penale e dalla tagliola della prescrizione. Non si era offerta sino ad ora alcuna “agevolazione” – prevista invece per il terrorismo e per la criminalità organizzata – al corrotto o al corruttore pentito per superare il muro dell’omertà. Si è invece prevista una punizione (attenuata) anche per il corruttore “indotto” o “quasi costretto” a pagare la tangente: in una condizione quindi vicina alla concussione, di vittima e al tempo stesso di responsabile del delitto.

Forse per questo in carcere si incontrano pochissimi colletti bianchi che scontano una pena definitiva per corruzione, a differenza di altri paesi come la Germania e gli Stati Uniti. Certamente per questo lo stato ha scelto con molta decisione la via della prevenzione, ispirandosi anche in questo caso a modelli di oltreoceano ed al sistema del bastone e della carota. In un primo momento in cambio della immunità si è chiesto all’impresa di collaborare; poi le si è chiesto di sostituirsi in pratica all’autorità nelle indagini e nella individuazione del colpevole (secondo qualcuno, del capro espiatorio o della testa di legno); infine le si è chiesto di accettare l’estromissione totale o parziale dalla gestione, affidata a consulenti del pubblico ministero. Una sorta di negoziazione non consentita dalla previsione costituzionale di obbligatorietà dell’azione penale; un percorso che accentua molto, con qualche perplessità, la via del sospetto e della inversione dell’onere della prova, con garanzie minori di quelle della repressione ed anch’essa non coerente con il nostro sistema penale costituzionale.

I risultati non particolarmente brillanti dell’azione di contrasto alla corruzione ottenuti, suggeriscono perciò di provare a seguire un metodo in parte diverso. Esso venne avviato venti anni fa per affrontare la crisi della giustizia; poi venne abbandonato ritornando al metodo tradizionale degli interventi spot, frammentari, disorganici, legati a stimoli contingenti o molte volte elettorali. Era il metodo di un intervento coordinato e globale sui diversi fronti del pianeta giustizia: dall’organizzazione dei mezzi al personale, al processo, alla esecuzione della pena e della sentenza civile; dal “modo” di esercitare giustizia al “contenuto” di essa, attraverso l’equilibrio fra efficienza, rapidità e garanzie.

Applicare questo metodo al tema della corruzione e della criminalità organizzata significa abbandonare il ricorso agli interventi spot. Significa muovere dalla educazione alla legalità – quindi al valore della reputazione e della vergogna – per “salire” prima all’etica imprenditoriale e ai relativi codici di autoregolamentazione; poi all’osservanza delle regole amministrative del mercato e di quelle civilistiche della gestione dell’impresa ed ai rispettivi strumenti di controllo (che vi sono e sono molteplici, nella autorità di vigilanza e nella corporate governance). Soltanto dopo di questo percorso si può giungere prima alla media ratio della prevenzione, fondata sulla pericolosità delle persone o dei beni (denaro o droga pesante, armi etc.); poi alla extrema ratio della repressione penale, attraverso il ricorso ai c.d. reati sentinella, al delitto di riciclaggio e a quello di corruzione sul piano sostanziale ed attraverso gli strumenti idonei di investigazione, come la tracciabilità del denaro e le intercettazioni.

Altrimenti si rischiano disfunzioni; sovrapposizioni; complicazioni capaci di rendere ulteriormente difficile una gestione che già di per sé non è facile. Si rischia di utilizzare degli interventi formali, quando non inutili e più onerosi dei risultati che si ottengono con il ricorso agli interventi spot, come venne osservato dai vertici della Corte dei Conti nel 2017. È un metodo meno appariscente di quello seguito sino ad ora; ma potrebbe rivelarsi più utile e produttivo di risultati.

Resta molto da fare, prima di poter cantare vittoria. Mi sembra vada fatto con freddezza e ragionevolezza, senza troppa enfasi a parole, cominciando dalla base: uno sforzo per la cultura della reputazione, della vergogna e della legalità, dalla quale siamo ancora molto lontani nel nostro paese; senza attendersi soluzioni miracolistiche dalle grida manzoniane o addirittura dalla scomunica di mafiosi e di corrotti.