di Federica Olivo HUFFPOST
“Il carcere è considerato una realtà impermeabile a qualsiasi forma di cambiamento. È visto come strumento di reazione alla paura del diverso. Non è utilizzato come extrema ratio, ma come metodo normale per risolvere quello che è percepito come un problema”. In piena emergenza Covid, Giovanni Maria Flick, presidente emerito della Corte costituzionale, pensava che sarebbe iniziata una riflessione seria sui penitenziari. Su un modello che, spiega ad HuffPost, “è da superare”, perché, in molti casi, non rispetta la dignità del detenuto. Non garantisce quei principi che pure sono scritti, nero su bianco, nell’articolo 27 della Costituzione. Così non è stato. Ha prevalso, anche questa volta, l’agire solo sulla base dell’emergenza, senza progetti di lungo periodo. Il seguire, a suon di decreti, le preoccupazioni dell’opinione pubblica. Più o meno motivate che fossero.
E così, quando sarà passata l’emergenza, probabilmente di istituti di pena – e di diritti dei detenuti – non si parlerà più per altro tempo. Uno scenario preoccupante perché, spiega l’ex Guardasigilli ad HuffPost, “la politica e la società vogliono dimenticare il carcere e le persone che sono ristrette al suo interno. È una sorta di rivisitazione del concetto, troppo spesso ripetuto, del chiudere dentro e buttare la chiave. Questo credo sia un dramma”.
Professore, spesso si tende a considerare il carcere come un qualcosa di esterno alla società, come se i detenuti stessi fossero un corpo estraneo alla comunità. Eppure la Costituzione dice ben altro. Perché accade ciò?
Perché il carcere viene considerato come un mondo a parte, impermeabile a qualsiasi forma di cambiamento. Come strumento di reazione alla paura del diverso. Non è utilizzato come extrema ratio, per casi particolarmente gravi, ma come metodo normale per risolvere quello che è percepito come un problema. Si continua, insomma, a perseguire la strada del “carcere a ogni costo” e ci si dimentica dei diritti e della dignità del detenuto, oltre che della funzione educativa della pena. Seguendo questa filosofia, si continuano a usare espressioni come “gettare la chiave” o “quella persona deve morire in carcere”. Ma, vede, c’è un principio che spesso viene dimenticato: è quello della pari dignità sociale. Questo non esclude nessuno, neanche i detenuti; neanche fra questi i condannati per i reati più gravi.
Una dignità che, spesso, viene negata nei fatti. È possibile un carcere diverso?
Qualche tempo fa, nella legislatura precedente era stata istituita una commissione ministeriale per arrivare a una riforma che assicurasse a chi ha commesso un reato i “residui di libertà” (così chiamati dalla Corte costituzionale) compatibili con la privazione della libertà personale: ad esempio il diritto all’affettività, all’istruzione, ad un minimo di privacy. Che garantisse, insomma, pur nelle restrizioni, qualche barlume di libertà che fosse – sembra un paradosso ma non lo è – compatibile con la restrizione generale della libertà stessa. Poi sono arrivate le elezioni e quelle carte saranno, al più, studiate da qualche appassionato nelle biblioteche. Resta la realtà: carceri sovraffollate, interventi solo emergenziali, reclusione vista come forma più efficace di pena, condannato isolato dal mondo perché considerato diverso.
Un modello che, forse, non è particolarmente compatibile con uno stato di diritto. Come si può andare oltre?
Vede, io credo che non possiamo più esimerci dal ragionare su un tema di fondo. Ritengo che il carcere per come lo conosciamo oggi sia un modello da superare. Non in tutti i casi, beninteso, ma bisognerebbe lasciarsi alle spalle quell’idea secondo la quale la reclusione in un istituto penitenziario sia la norma. In carcere dovrebbe andare solo chi è aggressivo e violento.
E gli altri condannati?
Per loro sarebbe opportuno pensare a pene diverse, ma non per questo meno efficaci.
Qualche esempio?
Intanto colpire più significativamente i patrimoni di chi si è arricchito commettendo un reato, secondo il modello sperimentato con successo per la criminalità organizzata. Ma poi penso a dei seri lavori socialmente utili; al divieto di esercitare le professioni con cui si sia commesso il reato; alla detenzione domiciliare. Consento al condannato di stare a casa, certamente poi dispongo dei controlli. Questo sarebbe un modo per non compromettere la dignità della persona.
Professore, è possibile arrivare a un modello del genere in una società che, salvo sparute eccezioni, tende a vedere la pena come una vendetta e il detenuto come una monade che non fa più parte della società?
Ci dobbiamo arrivare. Ci possiamo arrivare. Certo, sono necessarie alcune condizioni.
Quali?
Prima di tutto condizioni culturali. Intanto la società deve essere in grado di assumersi un rischio. Di accettare che potrebbe accadere che qualche detenuto che sconta la pena in casa torni a commettere reati. Ma si può fare in modo che ciò, tendenzialmente, non accada. O che si verifichi il meno possibile. Come? Innanzitutto non abbandonando il condannato a se stesso. Poi, perché un modello del genere possa essere messo in pratica, sarebbe necessario che la politica la smettesse di utilizzare le carceri e il sistema penale come strumento di persuasione e di paura. Peraltro, mi sento di aggiungere, che c’era un tempo in cui la saggezza del nostro sistema consentiva di distinguere l’uomo dal fatto che ha commesso.
Ci spieghi.
Nel momento della cognizione si giudicava il fatto, non l’uomo. Dopo, nella fase dell’esecuzione, si andava a valutare il trattamento che il condannato, avrebbe dovuto avere. E lì si prendeva in considerazione l’uomo. Adesso mi pare che stiamo capovolgendo le cose.
Non trova ci sia una tendenza a dimenticare la funzione rieducativa della pena? A considerare il carcere non come luogo che può offrire una rinascita ma come posto dove, semplicemente, scontare una condanna?
Più che funzione di rieducazione io parlerei, aggiungendo un altro step, di responsabilizzazione. Oggi non sempre si riesce ad arrivare a ciò. Vede, la cultura giuridica ha attraversato tre fasi. La prima era quella della vendetta, che si limitava a un rapporto Stato-colpevole, la seconda quella del rapporto a tre: Stato, condannato, società che puntava alla rieducazione. C’è poi l’ultimo stadio, la giustizia riparativa. Quando, cioè, si arriva a cercare di ricostruire un rapporto fra il condannato e la vittima o la famiglia di quest’ultima attraverso la responsabilizzazione e la consapevolezza del primo. A volte accade.
Molte altre volte no. Forse perché i condannati non sono messi in condizione di farlo?
Esatto. Spesso a chi sta scontando una pena non vengono dati gli strumenti per intraprendere questa strada. Con tutte le conseguenze del caso. Io credo che, al netto delle presunte o effettive strumentalizzazioni, le rivolte sui tetti dei penitenziari come a marzo scorso, siano una conseguenza delle condizioni in cui vivono i detenuti quando si levano loro i pilastri essenziali di sopravvivenza: la speranza e la fiducia. E non è un bel segnale.
Negli ultimi tempi la Corte costituzionale ha mostrato di avere molta attenzione nei confronti delle carceri. Non mi riferisco solo ad alcune decisioni – come quella sull’ergastolo ostativo - ma anche ad alcuni eventi, come il “Viaggio nelle carceri”.
Certo, la Consulta sta mostrando grande attenzione. Ma mi permetta di dire una cosa: mentre i giudici costituzionali entravano dalla porta, nei penitenziari la Costituzione usciva dalla finestra.
Cosa intende?
Che l’articolo 27 della Costituzione negli istituti di pena troppe volte non è rispettato. Voglio leggerne una parte del testo: “Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”. Ecco, laddove il trattamento diventa inumano non è più una pena. Può diventare un reato.
Il suo riferimento alle rivolte nelle carceri ci riporta all’attualità, alla querelle relativa alle scarcerazioni dei detenuti del circuito di alta sicurezza. Non tutti boss, come si era inizialmente affermato. Il governo ha risposto, se così si può dire, con due decreti. Cosa pensa di questo modo di agire?
Diciamo che è stata l’applicazione del principio secondo il quale per ogni problema, o fenomeno percepito come tale, si fa una legge. Abbiamo avuto una processione di decreti – legge di cui non c’era bisogno. Ricordo che il magistrato di sorveglianza ha il potere, e il dovere, di rivedere le misure che firma. Certo, ora con il secondo provvedimento di Bonafede dovrà farlo con delle cadenze prestabilite. Ma la sostanza non cambia. Ricordo poi, senza entrare nel merito del singolo caso, che i provvedimenti di cui si è tanto discusso erano, come sempre, impugnabili. Questa cosa forse sfugge al governo e al ministero?
La sensazione è che il Guardasigilli sia andato dietro al sentiment dell’opinione pubblica, come se volesse ‘correre ai ripari’ dopo le scarcerazioni dovute solo in parte all’emergenza Covid e sopratutto alle condizioni di gravi infermità dei beneficiari.
Vede, io credo che ci siamo costruiti una sorta di abito mentale per cui siamo portati a pensare, sbagliando, che una persona condannata per un reato di mafia sia un soggetto con meno diritti, irrecuperabile. Non a caso è stata fatta dell’ironia – per me fuori luogo – sul fatto che al 41 bis si sarebbe più al riparo dal contagio che in un supermercato. Vorrei ricordare che il diritto alla salute vale per tutti. E che questo non può essere superato dal diritto alla sicurezza della comunità, che può invece essere garantito in altro modo.
Le scarcerazioni, o meglio, i differimenti della pena, sono stati concessi a persone malate o anziane. Al di là di eventuali ritardi del Dap e di possibili errori del magistrato che ha deciso, perché c’è stato tutto questo accanimento contro i domiciliari ai detenuti di alta sicurezza?
In primo luogo perché stando alle cifre riportate dai media, si è agito sulla base di dati numerici inesatti, per usare un eufemismo. Poi perché sarebbe stato meglio da parte del Dap fornire ai giudici di sorveglianza una lista aggiornata dei presidi interni ed esterni al carcere, disponibili per la cura, piuttosto che una lista delle comorbilità associate al virus, a partire dall’età. Inoltre ci si dimentica che la salute va tutelata sempre. È un diritto per tutti, prevale in ogni circostanza. Se così non fosse, tanto varrebbe rimettere in funzione la pena di morte. Ricordo, poi, che nei casi di cui si è tanto discusso sono state applicate due norme del codice penale delle quali il legislatore si era dimenticato quando ha disposto il divieto delle misure alternative per che non collabora. Una dispone il differimento obbligatorio della pena in caso di gravi problemi di salute, l’altra il differimento facoltativo. In altri termini, se rischia la vita, il detenuto potrebbe uscire dal carcere anche senza essere costretto alla detenzione domiciliare. Il fatto che il giudice abbia disposto che debba rimanere in una casa, garantisce che questo sia controllato dalle forze dell’ordine.
La questione, comunque, al di là di tutte le polemiche strumentali degli ultimi giorni è molto semplice. Il giudice fa una valutazione: tenendo conto delle patologie del detenuto, del contesto e dell’età, stabilisce se per caso fuori da un penitenziario, soprattutto in un momento di pandemia, possa essere curato meglio. A quel punto, se non sono disponibili strutture ospedaliere riservate ai detenuti – come è successo in alcuni dei casi di cui parliamo – si decide per la detenzione domiciliare. Niente di strano, semplicemente si seguono la Costituzione e la Cedu. E, lo voglio ribadire a chi l’ha dimenticato, se una decisione di un giudice è ritenuta non corretta, può essere impugnata.
Prima faceva riferimento al sovraffollamento nelle carceri, che negli ultimi mesi è stato in parte – temporaneamente – risolto con una serie di interventi. Emergenza a parte, non trova sia dovuto anche al fatto che in galera ci vanno troppe persone, perché ci sono troppi reati?
In Italia ci sarebbe da fare un lavoro di depenalizzazione importante. Ma qui, invece che valutare di ridurre i reati, li aumentiamo. Esiste un allarme sociale, giustificato o meno che sia? Noi creiamo un altro reato. Continuiamo, insomma, a utilizzare il codice penale in maniera preventiva, con la costante minaccia della detenzione. Non è un buon modo di operare.